Chi sono i rifugiati climatici? La correlazione tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate è oggetto di studio da diversi anni, ma nel 2023 manca ancora un esplicito riconoscimento nel diritto internazionale. Infatti, nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nelle successive disposizioni normative non è stata mai espressa una definizione giuridica per le persone costrette a spostarsi a causa delle conseguenze dirette (desertificazione, catastrofi naturali, ecc.) o indirette (guerre per risorse scarse) dei cambiamenti climatici.
Perché, nonostante la crescente attenzione per gli effetti del climate change, non è stato aggiornato lo status di milioni di persone che nei prossimi anni potrebbero essere costrette a trasferirsi a causa della crisi climatica?
Una prima risposta è legata alla difficoltà di mappare i movimenti degli esseri umani sulla base di cambiamenti climatici a lenta insorgenza. L’impatto di un’inondazione, per esempio, è facilmente ascrivibile a una determinata area. Al contrario, il depauperamento del suolo provocato dallo sfruttamento intensivo e l’innalzamento degli oceani sono eventi dilatati nel tempo e nello spazio e pertanto hanno effetti non immediatamente quantificabili sulla vita delle popolazioni.
In questo articolo del JOurnal proveremo a spiegare perché l’espressione “rifugiati climatici” è problematica, insieme a un aggiornamento sugli ultimi quadri normativi con particolare focus sul contesto europeo.
Indice dei contenuti
Rifugiati climatici: significato
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati climatici sottolinea che «le regioni in via di sviluppo, che sono tra le più vulnerabili dal punto di vista climatico, ospitano l’84% dei rifugiati del mondo. Gli eventi meteorologici estremi e i pericoli in queste regioni che ospitano i rifugiati stanno sconvolgendo la loro vita, esacerbando i loro bisogni umanitari e perfino costringendoli a fuggire di nuovo».
Il focus al momento è principalmente sui disastri naturali, inoltre si è ritenuto che un’ulteriore specificazione non sia utile alla garanzia di maggiori tutele per gli sfollati. Questi ultimi vengono definiti come rappresentanti di climate-related displacement, una qualificazione che permette l’applicazione nei loro confronti, ad esempio, dei Guiding Principles on Internal Displacement.
Si tratta in ogni caso di linee guida e non di obblighi (come dicevamo, la tutela primaria grava sui governi nazionali e non c’è un riconoscimento dello status a livello internazionale).
Differenza fra rifugiati e IDP
Per addentrarci nel tema dobbiamo innanzitutto avere chiara la distinzione tra rifugiato e IDP, acronimo di internally displaced people, che indica «persone o gruppi di persone che sono state forzate o costrette a fuggire o abbandonare le proprie case o luoghi di residenza abituale per evitare effetti di conflitti armati, situazioni di violenza generalizzata, violazioni dei diritti umani o disastri naturali causati dall’essere umano e che non hanno oltrepassato confini di Stato riconosciuti a livello internazionale» (Guiding Principles on Internal Displacement, 1998).
Negli studi accademici sulle IDP solitamente rientrano anche quelle persone che hanno lasciato il proprio territorio di appartenenza a causa della crisi climatica purché, appunto, non escano dallo Stato. È tuttavia ampiamente noto che i cambiamenti climatici coinvolgono l’intero pianeta e non sono circoscrivibili ai confini di una sola nazione.
Esiste lo status di rifugiato climatico?
Un rifugiato, invece, è una persona che è stata costretta a lasciare il proprio paese e non ha intenzione di farvi ritorno.
La Convenzione di Ginevra definisce lo status di rifugiato in base a una «comprovata paura di persecuzione» in base a «razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica». Com’è evidente in tali condizioni non rientrano i motivi ambientali.
Da un punto di vista del diritto internazionale, quindi, lo status di rifugiato climatico non esiste e l’eventuale responsabilità di tutela primaria degli sfollati interni legati alla crisi climatica ricade sui governi nazionali.
Quante sono le persone costrette a spostarti per disastri ambientali e crisi climatiche?
Secondo il Global Internal Displacement Database, nel solo 2020 sono state 30,7 milioni i rifugiati climatici che hanno abbandonato le loro case a causa di disastri naturali. Si tratta in larga misura di IDP.
Nel 2050, a seconda del grado di catastrofismo delle stime, potrebbero essere diverse centinaia di milioni quelle che volontariamente o forzatamente migreranno per motivi legati all’ambiente.
Le tipologie di migrazioni legate al climate change
Il tema dei migranti ambientali occupa ancora poco spazio nel dibattito sulle migrazioni, ma la preoccupazione sale.
Per questo motivo le Nazioni Unite, l’Unione Europea e altre entità sovranazionali hanno proposto delle definizioni giuridiche per rendere più fluidi e tempestivi gli interventi.
Il migrante ambientale
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), lamentando l’assenza di una definizione globalmente accettata per le persone che si muovono per ragioni ambientali, ha di recente emesso la definizione provvisoria di “migrante ambientale”.
I migranti ambientali, secondo la proposta dell’OIM, sono «persone o gruppi di persone che, per ragioni di improvvisi o progressivi cambiamenti nell’ambiente che hanno un impatto negativo sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costrette a abbandonare le loro abitazioni, temporaneamente o permanentemente, e si trasferiscono all’interno del territorio o all’estero».
Per ammissione della stessa OIM, nel tentativo di catturare la complessità del tema, la definizione di migrante ambientale riconosce che:
- i migranti ambientali non si dislocano soltanto per eventi climatici estremi, ma anche per il lento deterioramento delle condizioni ambientali;
- i movimenti possono verificarsi sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali;
- la migrazione può essere sia a breve che a lungo termine;
- gli spostamenti determinati da cause ambientali possono essere sia forzati sia determinati da una scelta.
Priva delle implicazioni connesse al termine rifugiato, la definizione deliberatamente vaga di migrante ambientale indica che la mobilità umana connessa alla crisi climatica può prendere molteplici forme: temporanea o permanente, forzata o volontaria, interna o internazionale, individuale o collettiva.
Per l’OIM, inoltre, le migrazioni possono essere causate sia da processi lenti (come l’innalzamento dei mari e delle temperature, impoverimento del suolo), sia da eventi improvvisi (cicloni, tsunami, etc.), esacerbati fra l’altro dagli effetti avversi dei cambiamenti climatici.
Nel corso degli anni sono state enunciate nuove definizioni, alcune delle quali con valenza legale, come quelle degli accordi di Cancun del 2010. Questi ultimi distinguono tre diversi tipi di “mobilità indotta dal climate change“: dislocamento, migrazione, rilocazione pianificata.
Dislocamento da disastro
Il primo è riferito soprattutto agli spostamenti determinati da «situazioni in cui la gente è costretta a lasciare case o abitazioni a causa di un disastro o per evitare l’impatto di un rischio naturale immediato e prevedibile».
L’UNHCR individua degli specifici tipi di assistenza che organizzazioni e governi possono garantire:
- attività di riduzione e prevenzione degli impatti negativi provocati dai disastri ambientali;
- supporto tecnico e legale alle aree colpite da catastrofi naturali;
- promozione di policy e nuove ricerche volte a sostenere i Paesi colpiti.
La migrazione climatica
La migrazione climatica descrive un movimento di persone causato da un evento improvviso o progressivo dovuto alla crisi climatica. È da intendersi come una sottocategoria della migrazione ambientale, riferita a un evento più immediatamente ascrivibile ai cambiamenti climatici.
La rilocazione programmata
La rilocazione programmata, invece, si ha nel contesto di «disastri o degrado ambientale, inclusi quelli causati da effetti dei cambiamenti climatici, un processo pianificato in cui persone o gruppi di persone si trasferiscono o sono assistite nel trasferimento dalle loro case verso luoghi nuovi, e gli vengono date le condizioni per ricostruire le proprie vite».
La rilocazione programmata va intesa come un processo lungo da implementare in tutti gli aspetti della vita delle persone finché queste non hanno più bisogni o vulnerabilità connesse allo spostamento. È un fenomeno comune soprattutto in alcuni atolli in cui l’innalzamento dei livelli del mare rende già impossibile la vita umana.
La mobilità umana, espressione generica che copre tutte le differenti forme di spostamenti delle persone, è altresì un termine ombrello che riassume i precedenti.
Si dice rifugiato climatico o migrante climatico?
«Non abbiamo ancora piena coscienza delle conseguenze dei cambiamenti climatici per le nostre popolazioni e comunità e di come questo sia collegato ai flussi migratori. A livello internazionale, non c’è ancora descrizione o definizione che accolga il gruppo di persone che chiamiamo rifugiati climatici e non siamo nemmeno sicuri che quest’ultimo sia il giusto termine per descriverli tutti», ha dichiarato nel 2020 Carlos Trindade, presidente del gruppo di studio su immigrazione e integrazione della Commissione socio economica europea.
L’associazione della parola “rifugiato” a “climatico” o “ambientale” è spesso in uso presso media o attivisti per catturare l’attenzione sulle popolazioni colpite da disastri e climate change.
Per quanto i bisogni dei rifugiati climatici siano spesso assimilabili a quelli dei rifugiati, il parere delle organizzazioni è che le espressioni “rifugiati climatici” e “rifugiati ambientali” siano da evitare. Oltre a non avere base legale, falliscono nel riconoscimento degli aspetti chiave dei movimenti delle popolazioni sulla base della crisi climatica, come ad esempio il fatto che le migrazioni climatiche siano prevalentemente interne e non necessariamente forzate.
Il focus sui rifugiati climatici nel palcoscenico mediatico, inoltre, oscura le vulnerabilità di tutte quelle persone che, nonostante vivano in aree a serio rischio ambientale, non possono o non vogliono spostarsi.
Si parla in questo caso di “popolazioni intrappolate”, nozione che si applica in particolare a coloro che sono impossibilitati a muoversi a causa di mancanza di risorse, disabilità o ragioni sociali (ad esempio per questioni legate al genere) o che scelgono di non abbandonare la propria terra per ragioni culturali.
Il timore di diverse agenzie, OIM e UNHCR comprese, è infine che tali termini potrebbero minare il regime giuridico di protezione dei rifugiati.
Nell’ambito del Piano d’Azione per l’Integrazione e l’Inclusione 2021-2027, la Commissione Europea ha dato il via al progetto CLImate Change Induced Migration (CLICIM), che ha l’obiettivo di evidenziare il ruolo dei cambiamenti climatici nelle dinamiche strutturali di migrazione in Africa. Il CLICIM è culminato nel dicembre 2021 con l’emissione di un report finale su cui Bruxelles baserà le future policy di mobilità e migrazioni legate alla crisi climatica.
Compila il modulo qui in basso e scegli e-Medine per progetti connessi all’integrazione dei migranti climatici e alla sensibilizzazione sugli effetti del climate change nella vita delle persone più vulnerabili.