Da qualche anno l’Europa vive un clima teso, che ha visto come conseguenza la proliferazione dell’hate speech. Le campagne elettorali delle scorse elezioni europee, nella maggior parte degli Stati membri, hanno toccato il tema della migrazione e dell’odio, innescando un dibattito pubblico sul tema.
Purtroppo in Europa non si ha una definizione precisa e condivisa di “hate speech” e forse il problema è proprio questo. Non avendo una definizione esaustiva, è difficile regolare il fenomeno. Ancor più difficile risulta trovare un bilanciamento tra un’efficace regolamentazione normativa dell’hate speech, in tutte le sue forme, e la fondamentale garanzia della libertà d’espressione. Il problema, infatti, è che questo fenomeno non si estrinseca attraverso azioni o omissioni, ma attraverso deprecabili modalità di manifestazione del pensiero, legate a pregiudizi, stereotipi e ostilità , che ogni giorno si registrano in qualunque ambiente, online e offline.
LA NORMATIVA EUROPEA
Possiamo innanzitutto dire che l’hate speech rappresenta sicuramente una forma di discriminazione vietata dall’articolo 14 della CEDU, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rubricato per l’appunto Divieto di discriminazione.
Secondo questo articolo sono vietate quelle discriminazioni «fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”. Nell’esperienza comune, possiamo infatti dire che l’odio scaturisce spesso dalle condizioni di diversità , così come sommariamente elencate nell’articolo 14 della CEDU.
Lo stesso principio è tutelato, in ambito europeo, dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali.
Una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, datata il 30 ottobre 1997, fornisce una definizione del fenomeno in questi termini: «Il termine -discorso d’odio-, o hate speech,  deve essere inteso come comprensivo di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza, tra cui: intolleranza espressa da nazionalismo aggressivo ed etnocentrismo, discriminazione e l’ostilitĂ contro le minoranze, i migranti e le persone di origine immigrata».
Con l’avvento della tecnologia e dei social network, il controllo di questo fenomeno diffuso è divenuto piĂą complesso. A tal proposito, il Protocollo addizionale alla Convenzione di Budapest sulla criminalitĂ informatica firmato a Strasburgo il 28 gennaio 2003 afferma che: «Qualsiasi materiale scritto, immagine o altra rappresentazione di idee o teorie, che sostiene, promuove o incita l’odio, la discriminazione o la violenza, contro qualsiasi individuo o gruppo di individui, sulla base di razza, colore, discesa o nazionale o etnica origine, così come la religione se usato come pretesto per uno di questi fattori.»
Con la Decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia, diventa reato “l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica”. E questa definizione comprende anche l’hate speech online.
Il 31 maggio 2016, quando la Commissione Europea, in collaborazione con Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube, ha presentato l’innovativo “Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online” (CoCEN).
L’attenzione delle istituzioni europee e dei gestori di piattaforme è cresciuta in seguito ai frequenti attacchi terroristici e alla contestuale crescita di posizioni estremiste, razziste e xenofobe. Così anche le aziende IT hanno provveduto a stilare delle regole, per i fruitori dei loro servizi, con l’intento di prevenire questi fenomeni. Hanno quindi rivisto le loro politiche di funzionamento per rimuovere o disabilitare l’accesso a tali contenuti in meno di 24 ore, pur preservando la libertà di espressione, trattandosi di un diritto comunemente riconosciuto come fondamentale. L’obiettivo? Attuare un processo di responsabilizzazione.
L’ODIO ONLINE
Spesso la comunicazione online viene amplificata, grazie alla protezione virtuale di uno schermo che permette gli utenti di sentirsi meno esposti, e quindi più legittimati a non mettere filtri alla loro comunicazione. Non a caso le persone che usano un linguaggio colorato ed eccessivamente critico vengono definiti “leoni da tastiera”.
Un documento pubblicato dall’Unesco nel 2015, intitolato Countering online hate speech, elenca i caratteri distintivi dell’odio espresso attraverso internet rispetto a quello offline:
- La permanenza della manifestazione di odio nel tempo: come infatti si dice, “verba volant scripta manent”, cioè le parole volano ma gli scritti rimangono;
- Il maggiore impatto sociale rispetto ai contenuti offline, data la diffusione transnazionale dei contenuti;
- Il suo “ritorno imprevedibile”, non potendo gestire le condivisioni degli altri utenti o gli screen che istantaneamente immortalano un determinato post per diffonderlo privatamente o pubblicamente;
- La percezione degli autori dello hate speech di essere protetti dall’anonimato.
I COLOSSI DEL WEB CONTRO L’ODIO
YouTube, come tanti altri big del settore digitale, ha stabilito diverse regole, che vengono aggiornate continuamente, per evitare la diffusione di video che propugnano odio, suprematismo ed estremismo violento. In un post pubblico, YouTube ha spiegato che le nuove norme “proibiscono in modo specifico i video che sostengono la superioritĂ di un gruppo per giustificare discriminazioni, segregazioni o esclusioni basate su etĂ , sesso, razza, casta, religione, orientamento sessuale”.
Facebook, già da qualche anno, ha attivato una funzionalità che consente a ciascun utente di bannare, cioè nascondere, specifiche parole o frasi, ma anche emoji, dai commenti della propria bacheca, laddove considerati offensivi.
Questi tentativi di regolamentazione sono stati oggetto di diversi monitoraggi da parte della Commissione Europea, che ha verificato l’effettiva applicazione del Codice di condotta per contrastare l’illecito incitamento all’odio online. I risultati del primo sono stati presentati il 7 dicembre 2016. Il compito di provvedere al primo monitoraggio era stato affidato, in quell’occasione, a 12 organizzazioni in 9 paesi europei (inclusa l’Italia). Sono state monitorate circa 600 segnalazioni, riguardanti contenuti pubblicati prevalentemente su Facebook (45% dei casi, ossia 270 segnalazioni), su Twitter (27%, che equivale a 163), su YouTube (21%, 123 contenuti) e su altre piattaforme (7%).
Gli ambiti principali, colpiti dal fenomeno dell’hate speech online, hanno riguardato:
- Discriminazioni contro la comunitĂ ebraica, nella percentuale del 23.7%;
- Discriminazioni basate sulla nazionalitĂ , nella percentuale del 21%;
- Discriminazioni contro i musulmani, nella percentuale del 20.2%.
LE INIZIATIVE ITALIANE
In Italia, il Garante delle Comunicazioni (l’AgCom) ha preparato un severo regolamento che limiterĂ i messaggi di discriminazione, soprattutto verso le donne e i migranti. Le tv italiane rischiano una multa forte – “da 10 mila fino a 250 mila euro” – ogni volta che un tg, un programma di approfondimento, uno show dovesse macchiarsi dei “reati dell’odio”. La misura è stata dettata dal fatto che, secondo il Garante Italiano, “alcune emittenti private” nel 2018 hanno dedicato al macro-tema di -immigrati, sicurezza, fascismo, antifascismo- fino al 33% dello spazio dei loro tg e dei programmi di approfondimento, alimentando pregiudizi e sentimenti di odio.
A marzo 2018 è partito il progetto #iorispetto, cofinanziato dall’AICS, Associazione Italiana Cultura e Sport, che ha coinvolto 410 classi delle scuole secondarie di primo grado, in 130 comuni, con l’obiettivo di rafforzare le competenze professionali dei docenti sul contrasto al discorso d’odio, alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale.Â
Emanuele Russo, referente per i progetti di Educazione alla Cittadinanza Globale (CGE) di CIFA, afferma che «Il bullismo è la punta iceberg, ma la quotidianitĂ dei nostri ragazzi è infarcita di discorso d’odio: sui social hanno costantemente esperienza di ciò. Solo che quasi nessuno lo percepisce come tale, non percepiscono la differenza fra questo e discorsi e relazioni basati sul rispetto… di conseguenza non lo vivono come problema. Anche noi adulti siamo bersagliati dall’hatespeech, ma siamo cresciuti in un contesto diverso, lo riconosciamo e capiamo come neutralizzarlo. I ragazzi che oggi sono alle medie, no». Il progetto #iorispetto, di cui CIFA è capofila, vede un partenariato composto anche da Amnesty International Italia, Ammi, Corep e Icei.
PROSPETTIVE FUTURE
L’Europa, in generale, ha fatto notevoli passi avanti in materia di hate speech, sia per quanto riguarda la definizione e l’inquadramento del fenomeno, che per quanto riguarda la sua regolamentazione normativa. Tuttavia, come abbiamo evidenziato, il compito di rimuovere i contenuti discriminatori presenti online è rimesso interamente ad alcune grandi aziende private, che non rappresentano la totalitĂ degli attori che operano sul web.Â
Questo sistema, di conseguenza, fa gravare su pochi attori il delicato compito di vagliare la fondatezza e l’attendibilità delle segnalazioni dei loro utenti, oltre che la decisone finale in merito a quali contenuti rimuovere, senza che la decisione sia assistita da garanzie giurisdizionali. Inoltre si tratta di un’azione che mira semplicemente a impedire la diffusione di questi contenuti in rete, ma che non è sufficiente nell’ottica di attuare un’attività di sensibilizzazione. Sarebbe quindi necessario puntare sulla promozione di politiche volte alla riduzione del disagio sociale diffuso, nonché all’educazione e responsabilizzazione di tutti i cittadini.
Un esempio pratico di questa promozione è costituito proprio dal progetto #iorispetto di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo: bisogna partire dall’educazione scolastica per assicurare che gli uomini di domani siano più attenti e sensibili a queste tematiche.
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